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Filippi Arrigo – Un filo di cielo, nient’altro – 1° Premio giuria principale
Maria era persona nota in paese. Per nome indossava un mestiere, tutti la chiamavano la “sartina”. Semplicemente. Ma non banalmente: contava eccome essere sarta in un paese di campagna: cento sentieri, dieci case, tre cortili, due strade, un’osteria. … leggi tutto >
Gottardi Giuseppe – L’opzione – 1° Premio giuria popolare studentesca
Ciò che più lo disturbava era quell’andare e venire della memoria. Non c’era ombra di dubbio, ne era più che sicuro, quelli che osservava avevano un nome preciso e non dovette sforzarsi più di tanto per riportarlo alla mente. … leggi tutto >
Barbarisi Maurizio – Io non sono più qui
Quella sala d’attesa lo rendeva sempre nervoso. Era squallida, impersonale, inquietante nel suo biancore latteo. Anche i pochi quadri appesi erano scialbi, senza carattere. Appena si distoglieva da loro lo sguardo non ti ricordavi neppure più cosa raffigurassero, né avevi voglia di osservarli di nuovo per rinfrescarti la memoria … leggi tutto >
Bettini Rosa – Una foglia color passione
Se ne sta seduto sulla soglia di casa; immobile, lo sguardo che vaga nell’aria, forse a cercare terre estreme e ormai irraggiungibili.
E’ Vanni. Tutti i giorni così: dal mattino alla sera, caparbiamente incollato alla panca, pronto a reagire, sgarbato, … leggi tutto >
Brusasco Massimo – Sulla riva della Moldova
Arrivava alle 10.30 precise. E i cigni e le anatre erano già lì ad aspettarlo, certi che sarebbe venuto, perché lui, ogni mattina, giungeva puntuale. 10.30 spaccate: avresti potuto regolare l’orologio col suo arrivo. Veniva qui, tutti i giorni, sulla riva della Moldova, a pochi passi dal ponte Palachkeho … leggi tutto >
1Calvi Claudio – Aprile
Prima di quell’aprile guardavo un po’ scocciato e infastidito il pezzo di stoffa con una penna nera che a vent’anni toccava ad ognuno del mio paese : mi sembrava il simbolo di un anno buttato. Prima di quell’aprile non mi chiedevo se il destino ce lo costruiamo, o se invece è un binario in parte tracciato da chi è venuto prima di noi. … leggi tutto >
Cecchetti Stefano – Il vinaio
A casa mia il vino lo portava il vinaio.
Si chiamava Lepri, veniva da un qualche paese a sud di Firenze, forse dall’Impruneta, forse da Grassona, comunque da uno di quei posti che confinano con il Chianti, o lo sono già. Un uomo alto, grosso, una cicatrice lucida sulla guancia destra a formare una piccola salsiccia. … leggi tutto >
Curatolo Roberto – Amore senza età
Prima o poi morirò, si, lo so che la cosa riguarda tutti, ma io lo dico perché ci sono vicina. Nel senso che anche se fosse poi, non sarebbe così in là nel tempo.
Sono vecchia. Anche oggi ho dovuto scendere in farmacia a fare la spesa. Spendo più in medicine che in generi alimentari. Per fortuna che quell’angelo del farmacista – è una farmacia comunale, non illudetevi – mi misura la pressione gratuitamente. … leggi tutto >
Giampietro Guido – Sopra il cielo
“Ragioniere! Allora, l’alziamo questa mano? Approva? Si o no?!”. La stridula voce dell’amministratore, con la forza d’una freccetta che penetra nel bersaglio, si conficcò nella mente svagata del ragioniere facendogli comprendere che il destino dell’intero stabile dipendeva oramai da lui. … leggi tutto >
Melone Attilio – Il punto d’arrivo
Mi è sempre piaciuto camminare senza una meta precisa per i pascoli di montagna, proprio sul limite dove s’incontrano il verde dell’erba, il grigio dei graniti, l’azzurro del cielo ed il bianco della neve. ... leggi tutto >
Pergolari Paolo – Donne in amore
Premetto: io non sono mai nata, però so che mia nonna si chiamava Assunta e fu concepita come lo scoppio di un petardo, proprio quella notte lì, la notte dell’Assunta, quando da poco altri splendori avevano riempito il cielo, quando altre fiammate avevano colorato il firmamento con cascate e zampilli e stelle filanti. … leggi tutto >
Testa Paola – Tram di notte
Era un tram quasi dimenticato. Una linea notturna che faceva il periplo di tutta la città. Serviva soprattutto la periferia ed era praticamente sconosciuto agli abitanti del centro. Aveva un numero, ma la maggior parte della gente non lo conosceva nemmeno Forse n° 2 o 3 ma non aveva importanza. … leggi tutto >
Velluti Alberto – “All’ Aquila Cieca” rinomato caffè letterario
Parte prima
A Zauberdorf camminando su e giù per il lungo viale del centro durante i periodi di villeggiatura era difficile non incontrare almeno per una volta un personaggio illustre. Zauberdorf era da tutti conosciuto come il villaggio che dava quiete e riposo alle menti più acute e illuminate dell’Impero. … leggi tutto >
Maria era persona nota in paese. Per nome indossava un mestiere, tutti la chiamavano la “sartina”. Semplicemente. Ma non banalmente: contava eccome essere sarta in un paese di campagna: cento sentieri, dieci case, tre cortili, due strade, un’osteria. E un bosco di calli, una semina di chiacchiere, un groviglio di rughe. E occhiate scucite in fretta, baci appena, passi tanti, maledizioni a catena. E sudore a gocce, a fiotti, sotto un sole forte e lungo, sopra una terra larga e piatta.
La “sartina” rivestiva corpi strappati al lavoro, butterati di grandine e sole. Corpi contadini, messi su alla buona, tenuti insieme da un filo spinato di dolori. Quattr’ossa annegate in un fango di sidore e reumatismi. Per vestito quasi niente, solo un panno di calli e una canottiera di sole e vento.
Abitava in una quiete di stanze tinteggiate di penombre. Rumori, quasi niente. Solo il cri cri dell’ago, su e giù per la tela, canto di ferro e filo che inventava un’estate di grilli a un passo dagli occhi. E il brusio morbido delle stoffe, come un largo respiro di bosco. E le ruvide sforbiciate, rapide come i colpi di falce sulla peluria del campo.
Tutti l’ammiravano in paese.le donne se la passavano di bocca in bocca, evocata nei loro sorrisi di burro e miele, disciolta in un brodo di stupor dentro gli occhi. Prima o poi ci finivano tutti, dalla “sartina”. Un giorno toccò anche a mia madre. Ci andò a mutar pelle, come la serpe sotto il sole d’agosto.la “sartina” le misurò petto, fianchi, spalle. Col gesso tracciò bruschi segni sulla stoffa, veloci come il lampo sopra un panno di nuvole. Intorno, silenzio. Parole, quasi niente. Solo negli occhi di mia madre, ogni tanto, una gugliata di felicità. E un filo bianco tra le labbra, latte di gioia infantile bollito sul fornello del cuore.sorrideva così, mia madre, dalla “sartina”, contenta di così poco. Io la scrutavo di nascosto, affogato in una penombra spessa come la notte di paese. Volentieri le avrei sorriso anch’io, cucendo il mio bianco al suo, ma non osavo. Solo più tardi, nella strada, lo scodellavo ancora bollente, ridendo il doppio..
“Che hai, si può sapere?” chiedeva mia madre.
“Sembravi un porcospino, con tutti quegli aghi addosso!”.
Nei campi era diverso, si rideva largo e forte, a scoppi, a bocca strappata e occhi chiusi. Si rideva all’improvviso, la schiena dritta, il viso sollevato di scatto, affogato nella luce bionda del giorno. Si rideva col vento in faccia, la faccia al sole, il sole in faccia alla terra. Si rideva con un ballo di rughe in fronte, le mani appese ai lombi, gli occhi fissi al lontano. Dopo ritornava la forza in corpo, perché il riso sferrava un calcio al sangue troppo fiacco.
Mia madre conosceva bene i riti dell’ago e del filo: l’immobilità durante le prove, le mani della “sartina” a indagare il suo corpo, leggere come una peluria di luce sul bosco. Conosceva quelle intense liturgie; io no, emarginato per ignoranza. Così imparavo il mestiere di spia, scrutandola di nascosto dietro un’asola di palpebre strizzate.
mia madre alzava le braccia di scatto,
quasi in un gesto di resa felice. D’improvviso, spuntavano i colori segreti del suo corpo misterioso: il nero notturno delle ascelle, il bianco dolciastro del collo, il rosso penitenziale delle ginocchia.
La “sartina” stava tutto il giorno seduta in un angolo della stanza, immobile di fronte alla finestra. Vi rimaneva incastonata fino al cadere del giorno, alla fine della luce, alla resa degli occhi. Vi restava sprofondata in un’eternità di pazienza, cucita addosso come un abito perfetto. A cancellare il tempo era il ritmo ossessivo dell’ago, sempre uguale, ipnotico, pulsazione esatta come il canto del gallo quando scuciva dal buio il primo filo dell’alba. O come il grido del venditore nella via, salito fino al balcone scalando le pareti a picco della quiete meridiana. O come il tocco gelato di una campana, che d’improvviso spalancava un’asola di stupore a un passo dal cielo. O il muggito solitario di una vacca, spalmato sulla fetta del giorno appena sfornato da un fuoco di stelle.
Lavorando, il corpo della “sartina” sagomava un nodo perfetto: la schiena ricurva, il capo chino, gli occhi fissi in grembo, dove le mani sguazzavano in un variopinto mare di fibre. La “sartina” era una specie di poetessa, fine ricamatrice di sogni a buon mercato. Nel silenzio, tesseva anche una lana di pensieri nascosti. E fantasie segrete. E speranze taciute. La “sartina” filava anima.
Col tempo, gli occhi le si erano rimpiccioliti, aguzzati nella fissità, indeboliti dalla miopia, minuscoli aghi di fuoco in un cielo di sognante mansuetudine. Li strizzava fino a sembrare quasi cieca, talpa indaffarata a scavare tunnel di quotidiano mistero. Si fermava poco o niente, solo il tempo di sollevare il capo a piluccare una mollica di luce, da masticare adagio tra i denti di un cuore affamato. Dal pozzo di una mite pazienza tirava su ogni tanto un sospiro, secchiate d’anima per sentirsi più leggera. Poi tornava giù, a tuffarsi nel lavoro di sempre.
Si arrivava dalla “sartina” col fiato rotto e un dito di sudore in fronte. C’era da salire una ripida scala. Tenendosi a un mancorrente in ferro. Affrontavo l’ascesa con foga di bambino, mia madre con ansito di vecchia. Raggiungevo per primo il pianerottolo, lei parecchi fiati dopo. Il cuore faceva capriole e il sangue batteva sempre un po’ arrabbiato. Sul viso di mia madre cresceva rosso, mentre respirava a scatti, aspettando che il respiro riprendesse respiro.
“Ancora un momento…” mi pregava, ammucchiando fiato nella bocca spalancata.
Infine, sistemate alcune ciocche svenute in fronte, asciugata la rugiada del sudore, faceva segno di entrare. Ad accoglierci era la schiena della “sartina”, seduta al solito posto, davanti alla finestra . in alto, sul capo, un filo di cielo a far da cornice. D’estate, insieme alla luce e all’odore della vita, ruzzolavano nella stanza grappoli di suoni annodati al vento: voci di bambini intenti al gioco, grida d i uomini, canto di donne nelle stanze, un tamburello di passi, una battaglia di zoccoli sulle pietre.
In tutta la sua vita c’era stato un solo grande amore, Remo. Fu subito passione di occhi strofinati addosso, labbra abbottonate alle labbra, fiati ingarbugliati ai fiati.di giorno, distesi nel campo, coperti solo di baci, facevano un cespuglio di carne fiorita al sole. Di sera, foderati di carezze, sognavano in fondo a una vigna, sotto un quarto di luna imbambolata. O sostavano all’ombra d’un portone, a scottarsi l’anima con parole versate piano all’orecchio. Un infinito rammendo cuciva insieme il loro sogno di amanti al sogno di tutte le cose esistenti. Si sposarono, ma l’intesa fu breve: solo il tempo di far crescere un ricordo per sempre.
Un giorno, dalle bocche di paese grondò un pettegolezzo amaro. Si mormorò del tradimento di Remo, scoperto abbracciato a un’altra. La chiacchiera si diffuse rapida, serpeggiò nelle strade, rimbalzò di cortile in cortile, invase le stanze fino a sgocciolare dentro l’orecchio della “sartina”. Fu dolore grande, rabbia, sforbiciata sul cuore. Remo se ne andò di casa. Dopo qualche mese finì in galera per un furto da quattro soldi. Nonostante l’abbandono, la “sartina” lo andò a trovare un fine settimana. Non l’aveva dimenticato. Non voleva. Non poteva .
Viaggiò carica di brutti pensieri
che gettò via dal finestrino el treno. Giunta in città, salì le scale della prigione e aspettò in parlatoio l’arrivo di Remo. Quando lo vide gli chiese dei giorni passati in cella, col sole dietro le sbarre. Remo tacque, le parole congelate in fondo all’anima indurita. Lo sguardo era di pietra. La “sartina” lo fissò intensa, poi lasciò cadere qualche goccia di pena nei suoi occhi di sasso. E finalmente le parole ricominciarono a scorrere, piccolo ruscello in un letto di labbra asciutte. Le mani si cercarono finché le dita fecero cerniera con le dita, gli sguardi sciolti negli sguardi. All’improvviso si sentirono come un tempo, intessuti a ogni cosa del creato, ai fili d’erba e al vento e alla luce e al profumo dei fiori e al canto del silenzio e al respiro immenso della vita. Dopo il colloquio venne l’ora di lasciarsi. La guardia mise fretta e la gente si staccò a fatica, ricamando nell’aria un saluto con le dita. La “sartina” spinse un ultimo bacio da lontano, di furia, scagliando ancora una volta i suoi occhi a tuffarsi negli occhi di Remo. Infine, la porta si chiuse dietro le sue spalle.
La “sartina” morì molti anni più tardi. Non ricordo come, però mi piace pensare che lo “strappo” avvenne mentre cuciva come al solito, annegata nella luce di un azzurro affacciato alla finestra. La cornice giusta per un definitivo congedo: un filo di cielo, nient’altro.